Ho ucciso una zanzara, mi sento male.
La vedo rantolare
Gobba a terra. Ali distese.
Le zampe in alto, protese.
L’esamino morire. Ho spavento, l’ho uccisa e me ne pento.
Ma chi sono io, per spezzare un fuscello? Mai ci penso.
Sono un assassino, ho fatto fuori l’esserino.
Ecco più non si dimena
è ferma a terra la sua schiena.
Mi manca il respiro. Voglio consolarmi e dico.
“Sei una creatura disgustosa, parassita succhiatore
che provochi pene e pizzicore”.
Ho fatto bene. Sì, dovevo, è solo una zanzara, penso, ma so che mi mento,
La verità? La sua morte mi da il tormento.
La guardo negli occhi, neri a palla. Io e te, non siamo poi così diversi.
Due insetti un po’ perversi.
Distolgo lo sguardo, non ce la faccio. Non so perché, ma mi rivolto e la riguardo.
Si rialza.
È viva, allora c’è speranza.
“Vola via su un braccio nudo, vai!”.
Che sollievo, non ho colpa, niente ho fatto. Sono buono, ma poi penso e se era una zanzara tigre di malaria portatrice? Sarei peggiore di quel che si dice,
un untore addirittura che vede una zanzara e non se ne cura,
anzi la libera dalle proprie mura.
E forse è vero sono infido. Perché so già cos’accadrà. Vado al fiume, sì, in estate
e di zanzare ne ucciderò a palate.
Con un applauso fatale ammazzerò quante più zanzare.
Al prurito non si comanda. Anche se ora è autunno e sono triste, se penso alla futura scanna.